Carlo Sgorlon, scrittore e narratore Friulano

La svolta

Intanto la svolta della narrativa sgorloniana è decisamente avvenuta e per sempre. D’ora in poi Sgorlon non racconterà più storie di sofferte solitudini, ma sempre vicende corali, in cui l’individuo si realizza nel gruppo. Storie di famiglie, di paesi, di piccoli popoli, spesso sfortunati e tartassati dalla storia, a cominciare dal suo, quello friulano. Ma in seguito scriverà anche storie di zingari, di ebrei, di istriani, di cosacchi. Una delle definizioni salienti che si possono dare di Sgorlon è questa: scrittore epico, pensoso, di vicende vissute da piccoli popoli, subalterni e offesi.

Nei suoi libri un protagonista c’è sempre, ovviamente, ma egli non avrà più alcuna vocazione a vivere solo. Si sforzerà sempre di integrarsi nel collettivo, o sarà addirittura una guida, un modello, un punto di riferimento. Riuscirà a calamitare gli altri attorno a sé, a trasformarli in una comunità che possiede dei valori in comune. Sarà portavoce di sentimenti e di cose che gli altri riescono a vedere soltanto debolmente e confusamente dentro di sé. Dirà delle cose in nome di molti, e destinate a molti, come i profeti della Bibbia.

Si sforzerà di suscitare sentimenti e valori corali. Cercherà anche altri modi di salvezza dall’eterno naufragio esistenziale. Per uscire dalla limitatezza soffocante dell’ “hic et nunc”, di un presente affastellato di avvenimenti che si cancellano l’uno con l’altro e che pare essere la vocazione assillante e negativa dei contemporanei, Sgorlon ricorre al mito, alla leggenda, alla saga e all’archetipo. In altre parole cerca di uscire dall’aridità desertica e asfittica della cultura contemporanea ricorrendo a tutte le forme della conoscenza arcaica e prescientifica; a tutte le forme poetiche, mitiche e magiche del conoscere della mente umana, prima che cominciassero le stagioni dello scientismo e della critica razionale.

Lo scrittore non rifiuta certo le forme più moderne, più organizzate e mature del conoscere. Anzi s’interessa largamente alle scienze e in particolare alla fisica. Ma avverte anche tutte le limitatezze dell’uomo moderno e della sua cultura, caratterizzata da uno stoicismo sempre più stretto e asfissiante, da un antropocentrismo sempre più superbo, da un laicismo sempre più gretto e zoppicante. Perciò spalanca le finestre alla modernità e fa entrare fiotti d’aria della cultura arcaica.

Scopre, con l’aiuto di Jung, che la mente, il sentimento, l’inconscio dell’uomo sono costellati da miriadi di archetipi, sui quali si basa il modo stesso di funzionare dello spirito. Sgorlon riscopre il mito, favola eternamente valida, che si ripropone attraverso i tempi, con significati sempre nuovi. Scopre le cento forme dell’immaginario collettivo e individuale. Sente con forza che tutto questo non è un materiale conoscitivo da eliminare, come inutile zavorra, come elemento ancestrale, che impedisce lo sviluppo della conoscenza razionale.

Capisce che si tratta invece di una miniera, di una cisterna ricchissima, perché da esse gli uomini traggono il piacere di immaginare, di fantasticare, di raccontare delle storie. Per Sgorlon l’immaginario, la fiaba, il mito hanno diritto di cittadinanza nella mente umana quanto la razionalità e la scienza. Essi sono la fonte più vera delle metafore, e quindi della poesia, ma anche del piacere di vivere e dello slancio vitale.

Con questa poetica, che trova realizzazione in tanti romanzi della sua maturità, Sgorlon esce progressivamente e sempre più decisamente dalla concezione del Decadentismo.

Il primo libro del nuovo periodo sgorloniano è Il trono di Legno, del 1973, che stravinse il Premio Campiello, con un numero di voti mai superato in tutta la storia della competizione veneziana. Fu un vero best-seller e con esso l’autore acquistò una consistente notorietà nazionale. Il libro ebbe in trent’anni venticinque edizioni. Il trono di Legno era una favola contadina e avventurosa, a volte picaresca, con tonalità epiche e leggendarie. Il protagonista, dopo la morte della donna ritenuta sua madre, andava alla ricerca delle sue origini. S’innamorava di due donne, una appassionata e mutevole l’altra timida e umbrabile; la prima simbolo della vita attiva, dissipatrice ed effimera, l’altra simbolo della contemplazione, della tradizione e dell’intimità casalinga. Egli diventava scrittore, ma inserendosi nella linea della tradizione narrativa orale della civiltà contadina. Il suo modello era un vecchio patriarca, Pietro: un friulano che era stato emigrante in tutto il mondo e tutta la vita aveva trasformato in mito e favola.

Con questo libro Sgorlon esce decisamente dalla nevrosi universale della cultura contemporanea, che è cultura dell’effimero, della mancanza di valori e di durata delle cose. Con gli archetipi resistenti al tempo, i miti, le favole, le leggende, Sgorlon riesce a superare l’angoscia della precarietà.