Carlo Sgorlon, scrittore e narratore Friulano

La grande guerra in casa mia

Nelle due famiglie in cui vissi da bambino, quella di mio nonno materno, in campagna, e quella di mio padre, in città, la Guerra mondiale, anzi la Guerra semplicemente, senza aggettivi, aleggiava ancora in casa come un'eco spaventosa di un evento ancora recente, ma in qualche modo già leggendario. Era come una cupola che sovrastava, come un fantasma carico di misteriosa autorità.

Del resto essa prolungava nel presente suoi riflessi e le sue appendici; a Redipuglia si era appena finito di

costruire l'immensa gradinata del cimitero di guerra, che nelle foto dei giornali, o nei films Luce, vedevo salire sul fianco di una collina, il cielo. A Udine, in un piazzale che occupava un posto centrale nella mia mente perché portava, come nome, la data della mia nascita (26 luglio) v'era un enorme cantiere, sopra i cui ponteggi di assi e di tronchi già emergeva una cupola di rame che scintillava nel sole. Era, dicevano i grandi, il Tempio Ossario, e la denominazione mi suonava solenne, imponente, anche se non mi era chiarissimo il suo significato. Non facevo domande. Ma le impressioni di ciò che mi veniva detto si andavano sedimentando dentro di me, formando quella cisterna magica di impressioni, da cui un giorno avrebbe attinto lo scrittore.

Venne il tempo in cui il monumento fu finito e aperto al pubblico. Al mio stupore di fanciullo si presentò una chiesa diversissima da tutte le altre che conoscevo, di linea architettonica modernissima, tutta foderata di marmi luccicanti, color panna o color tabacco.

Nella cripta silenziosa v'erano migliaia di piccoli rettangoli di marmo ognuno dei quali recava in lettere di bronzo il nome di un soldato, un caporale, un tenente. Intuii finalmente che la cripta era una sorta di cimitero, dove stavano le ossa di migliaia e migliaia di soldati, dei quali a volte si sapeva il nome, a volte no. Così si chiariva anche il termine nebuloso Ossario. Voleva dire un luogo dove infinite ossa di morti venivano raccolte.

Nella cripta v'era un silenzio da acquario; pareva che lo stesso rumore delle pedate fosse una sorta di dissacrazione e di insulto per i soldati che dormivano là dentro. Percepivo oscuri misteri della vita e del destino. Anche mio padre era stato soldato di fanteria nella guerra, e se le cose fossero andate diversamente per lui, se anche lui fosse morto, io non sarei mai venuto al mondo. Sentivo le linee enigmatiche del destino intersecarsi sopra la mia testa, come i binari di una stazione invisibile, dove la mano imperscrutabile del Creatore azionava misteriosamente gli scambi o da quelle manovre nascevano vita o morte, l'essere o il non essere.

Mio padre invece, le rade volte che ne parlava, non sembrava affatto pensare alla Grande Guerra in termini di binari, di scambi fatali e di destino. Benché fosse di temperamento estroverso e ciarliero, in lui v'erano anche delle zone molto serie sovrastate dal cupo telone da circo della sventura. La guerra era una di quelle. Quando ne parlava la sua voce acquistava un'intonazione diversa. Non era fatalista, lui. Gli piaceva invece sottolineare la parte da lui avuta nella Guerra, come se essa fosse in fondo la cosa più importante. Mai come in questo momento, che lui è scomparso da poco, ho sentito che aveva ragione. Cosa poteva esservi di più importante della parte che nella guerra aveva avuto il soldato di fanteria Antonio Sgorlon nemmeno diciannovenne, cui avevano fatto posare le forbici e il gesso per imbracciare il fucile?

La guerra nei suoi discorsi si sintetizzava in quattro o cinque eventi per lui fondamentali. La prima era un salto doppiamente pericoloso dalla tradotta che lo portava al fronte, nei pressi di Chions, il suo paese natale, perché lui non voleva essere mandato al macello senza aver salutato prima la sua famiglia. Poteva fracassarsi una gamba, oppure essere accusato di diserzione, e fucilato. Eppure l'aveva fatto quel salto dal treno, con una ferma convinzione che niente di male gli sarebbe successo. A diciannove anni si possono avere di queste sicurezze. Un altro episodio che amava raccontare era quello di un lunghissimo bombardamento di schrapnel in cui si era trovato allo scoperto, impossibile ritornare in trincea. Trovò riparo dietro un enorme ceppo d'albero schiantato, ancora radicato nel terreno, e lì stette rannicchiato per terra (la terra madre, la terra salvatrice). Come insegna un ufficiale in uno dei libri più famosi sulla Grande Guerra, (Niente di nuovo sul fronte occidentale), ben deciso a salvare la pelle, tre, quattro, cinque ore, neanche lui sapeva quante, immobile come un sasso, finché il bombardamento non cessò.

Poi ci fu la rotta di Caporetto, e mio padre fu fatto prigioniero. Dai suoi racconti anzi mi pareva che fosse stato spedito al fronte soltanto per esser fatto prigioniero, perché da essi risultava che il disastro fosse imminente e fatale, e l'esercito austriaco, che sviluppava una potenza di fuoco di gran lunga superiore alla nostra, appariva quasi inarrestabile. Per lui il Cannone era il vero Signore della guerra . Subito dopo la cattura s'incasellava nella vita di mio padre un altro evento memorabile, una lunghissima marcia a piedi per arrivare al campo cui era destinato. Seicento chilometri da Plezzo a Zwichau, che erano stati fatti sembrare infinitamente più lunghi del vero dal freddo e dalla fame.

La prigionia di mio padre era dominata da un unico, terribile spettro, la fame. In poco tempo si ridusse pelle e ossa, magro da far spavento. Il suo peso non superava quello di un bambino di pochi anni. Ma per fortuna erano intervenuti poi i prigionieri francesi , cui mio padre accomodava i vestiti, che ricevevano ogni ben di dio dalle loro famiglie, attraverso la Croce Rossa, e si era salvato.

Strano a dirsi: la prigionia, di cui tutti conservano ricordi tremendi, aveva fatto crescere straordinariamente la stima di mio padre per due popoli: per i francesi che lo avevano salvato dall'inedia, e per gli stessi nemici, gli austriaci, perché erano disciplinatissimi, non umiliavano gli avversari, e spingevano la loro lealtà fino a rispettare i pacchi di viveri dei prigionieri, benché loro stessi morissero di fame. Non si stancava di ripetere, mio padre, che lui si era reso conto presto che gli Austriaci avrebbero dovuto perdere la guerra, perché non avevano letteralmente niente da mangiare. La sconfitta si leggeva loro in faccia, nell'occhio spento e nelle ossa sporgenti del cranio. Se ripenso a quei discorsi, mi accorgo di quanto la visione di mio padre, in apparenza così semplicistica, in realtà fosse carica di buonsenso, e quindi vera ed acuta. Ci furono infiniti eroismi e sacrifici, da una parte e dall'altra. Ma ciò che finisce sempre per far vincere o perdere le guerre è sempre la fame o i cannoni. Anche per questo le guerre sono terribilmente disumane; perché sono eventi fuori dall'uomo, in cui esso non conta tanto per vincere o perdere, ma piuttosto per soffrire e morire.

Il tema della fame dominava in lungo e in largo anche nei racconti di una zia, rimasta nella casa di Chions a subire l'invasione, che era stato il destino dei più poveri. A tutte le ore potevano irrompere in casa, e specie in quelle dei pasti, gli spilungoni biondastri, i poveri mangiasego di Francesco Giuseppe che, per poter riempire lo stomaco in qualche modo, arrivavano a strappar erbe commestibili nei prati. I contadini li temevano come il colera e dovevano ricorrere a trovate ingegnose per difendersi dall'assalto di quella fame biblica, da quell'invasione di cavallette che ingoiavano ogni cosa e che aveva imperversato per un anno intero. Mia madre, invece, la guerra la vinse in modi diversissimi. Il 24 maggio del '15 per lei fu un giorno di doppia festa: perché compiva dodici anni e perché il collegio di San Pietro, in Val Natisone, dove lei studiava era stato chiuso per lo scoppio del conflitto e le bambine rispedite a casa loro. Per diciassette mesi da Cassacco o da Udine, nei giorni in cui l'acustica era più favorevole, sentiva l'eterno brontolio dei cannoni, giù a Gorizia e a Monfalcone, simile a un bubbolio di temporale lontano che non si decidesse ami ad avanzare o ad allontanarsi. Ma lei era bambina, aveva la testa sgombra di pensieri, e si godeva quell'eterna vacanza discesa dalle stelle. La festa per lei era continuata anche quando, alla notizia di Caporetto, mio nonno, acceso patriota, aveva deciso la fuga. Una festa movimentata, drammatica, ma sempre festa, perché i pensieri erano tutti per i grandi e i ragazzi si limitavano ad andargli dietro e a guardare con tanto d'occhi le cose strane e inaudite che succedevano. Mia madre con i suoi genitori riuscì a salire sull'ultimo treno in partenza verso il Veneto, e vide il ponte di Pinzano, sul Tagliamento, minato dai genieri in ritirata, saltare alle sue spalle.

Il suo viaggio di profuga si concluse a Firenze, dove vide infinite cose, si creò amicizie che ancora coltiva e riprese a frequentare la scuola. A Firenze la raggiunse la notizia della "vittoria del solstizio" e della vittoria finale. Ci furono per lei entusiasmi a non finire, e forse, chissà, anche un pizzico di amarezza perché la sua grande avventura fiorentina si avviava al tramonto. Forse non aveva nessuna fretta di tornare al suo grigio paese di collina, per vedere cosa gli austriaci e la guerra vi avevan lasciato di intatto.

Furono questi i modi in cui, attraverso i racconti uditi in casa, io rivissi la Grande Guerra finché a tutti non mise fine la seconda guerra mondiale, che sarebbe stata, almeno per il mondo, se non per noi, anche più lunga e terribile della prima. Perché una guerra scaccia l'altra come chiodo scaccia chiodo.

Carlo Sgorlon: scritto riportato da Edda Agarinis Sgorlon 01.03.2013

 

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